Claudia Molinari

Claudia Molinari, Co-Founder di We Are Müesli, è Game-to-Women

Claudia Molinari, Co-Founder di We Are Müesli, è Game-to-Women

Claudia coltiva sin da piccola la passione per le storie, per l’arte e per la creatività e gira il mondo collezionando esperienze che contribuiscono ad influenzare il suo stile creativo. Quando incontra quello che poi sarà il suo compagno di vita professionale e privata, si avvicina al mondo magico dei videogiochi dando vita a We Are Müesli. Realtà dallo stile inconfondibile che utilizza il videogioco come mezzo di comunicazione d'avanguardia per fare cultura.

Ci puoi raccontare qual è il percorso che ti ha condotta a lavorare nel settore dei videogiochi?
Avete presente quel tema delle elementari? Quello dove vi chiedono cosa avreste voluto fare da grandi? Che poi i maschi scrivevano “poliziotto”, “astronauta” e “paleontologo” (l’ultima solo se portavano gli occhiali) e le femmine “maestra”, “infermiera” e “veterinaria” (l’ultima ti costringeva ad avere i quaderni con le copertine di cavalli, gatti e civette)? Nel mio c’era scritto “strega”. Ma non strega come le streghette dei cartoni animati giapponesi: io volevo fare la strega “vera”, con una casa nel bosco, una scopa e le magie che escono dal camino. Leggere le carte, raccogliere le erbe, ascoltare le storie delle persone. Ovviamente la maestra non perse occasione per farmi tornare coi piedi per terra, scrivendomi che avrei dovuto trovare un lavoro serio… così ripiegai su “scrittrice”, ma con le illustrazioni sulla pagina sinistra fatte da me! E da allora ho iniziato ad allenarmi con il disegno, prima a mano libera — ma non ero poi così tanto brava — e poi al computer, fino a trovare una sorta di stile che ancora oggi caratterizza le opere di We Are Müesli. Se a 15 anni, però, mi avessero detto che sarei diventata vegana, mamma e game designer, avrei riso a crepapelle. Oggi sono tutte e tre queste cose, anzi: quattro, visto che mi sento sempre un po’ strega. Cosa c'entra la stregoneria con i videogiochi? Moltissimo, anzi “tutto”. Credo che il videogioco sia il territorio più magico che possa esistere tra i vari media. E, parlando di magia, il mio percorso è stato senza dubbio una successione di incantesimi uno dopo l’altro, come una Rube Goldberg Machine il cui risultato fa “game design”. La macchina ha preso il via proprio a 15 anni, quando per ragioni familiari sono andata a vivere con le mie sorelle in Inghilterra; da lì ho studiato tanto e lavorato tanto, prima di arrivare a fondare We Are Müesli. La mia formazione parte a Cambridge durante gli anni di liceo, dal connubio tra l’antropologia sociale e il teatro: perché, se da una parte mi piaceva raccogliere e collezionare storie folkloristiche, dall’altra volevo imparare a raccontarle bene, interpretando molti ruoli. Poi all’università di Brighton con la fotografia, quella a pellicola, fatta di click e solventi. Questo era un corso facoltativo rispetto al programma principale di laurea in Information and Media Science, ma è proprio in questi anni che inizio a frequentare corsi su corsi legati al mondo delle immagini. Le ore passate a sviluppare foto, tra l’odore chimico, le luci infrarosse e le carte sensibili, sono state un incredibile collegamento con quel lato infantile di cui sopra, visto che in camera oscura mi sentivo davvero nel mio. Da cosa nasce cosa, e finisco a studiare Graphic Design a Milano, all’Accademia di Comunicazione, e Art Direction al Central Saint Martins di Londra durante un corso estivo. Indipendentemente da quanto siano durate, le mie esperienze formative — sia quelle brevi che quelle lunghe — mi hanno dato spunti per arrivare dove sono arrivata oggi. Contestualmente a una vita fatta di campus britannici, sale da tè e pinte di birra, ho iniziato le mie esperienze lavorative. A Cambridge ho fatto la cleaner nei college più prestigiosi, a Brighton la cameriera, a Milano l’insegnante di inglese: mentre studiavo non ho mai smesso di lavorare. Questo lo dico perché si pensa sempre alle esperienze di lavoro più autorevoli e si tende a dimenticare da dove si è partiti, e io sono partita così. Una volta conclusi tutti gli studi, con qualche incertezza sul tornare in Italia, ho collezionato ulteriori esperienze all’estero come a Monte Carlo dove ho lavorato come concept designer per uno studio di moda o a Pechino come experience designer per uno studio di architettura incentrato sui luxury brands. Una volta rientrata, ho fatto qualche lavoretto qua e là nell’editoria fino ad atterrare a Milano, in un’agenzia di comunicazione, service design e innovazione dove, con il ruolo di senior designer, incontro Matteo Pozzi, ai tempi copywriter. Dapprima colleghi e subito dopo coppia creativa (art-copy), la nostra sintonia ci ha portato nel tempo a diventare anche una coppia nella vita. Mio primo critico, mio amore, mio amante, mio socio e padre del nostro meraviglioso bimbo Costantino, con lui ho girato il mondo collezionando quelle inspiegabili situazioni che andavo cercando quando ero piccola. È stato lui a farmi conoscere il mondo magico dei videogiochi e, da allora, lui è la penna e io la matita dietro alle nostre produzioni.

Qual è il tuo ruolo all’interno di We Are Müesli?
Per quanto suoni strano alle mie stesse orecchie, io sono il Presidente di We Are Müesli. We Are Müesli è nata nel 2011 come esercizio di stile, per diventare un duo informale nel 2013, fino a strutturarsi come Srl Impresa Sociale nel 2018. In quanto Presidente mi occupo un po’ di tutto, e intendo davvero tutto: dalle pubbliche relazioni, al fare i caffè a collaboratrici e collaboratori; dalla gestione dei budget, allo sbrigare qualsiasi tipo di problema creativo, amministrativo, logistico, fino al cambiare anche le lampadine dello specchio del bagno. Questo perché il mio è e rimane uno studio indie. Scherzi (ma non troppo) a parte, negli anni il mio ruolo si è modificato assomigliando sempre di più a quello del producer / project manager, come anche quello di Matteo che è diventato sempre più strategico e di vitale importanza: è infatti lui l’architetto dietro ogni titolo, dietro allo sviluppo, il funzionamento e la valorizzazione dei contenuti, a volte anche con importanti suggestioni visive. Tuttavia i nostri ruoli sono interdipendenti: siamo il reciproco piano B quando uno di noi due non può fare da piano A. Ecco perché abbiamo sviluppato esperienze trasversali su tutta la filiera di produzione. Fatta questa doverosa premessa, come imprenditrice della mia azienda ho sostanzialmente due fronti di sviluppo: interno, prendendomi cura della salute dello studio, ed esterno rispetto agli sviluppi con nuovi partner e interlocutori culturali. Rispetto al primo fronte, il mio più grande obiettivo è quello di costruire quotidianamente un ambiente di lavoro sereno, gratificante e decoroso per chi lavora con noi. Ho esperienze pregresse in varie aziende e ricordo bene cosa vuol dire non sentirsi appagati. L’esserci trasformati da “duo” a “team” ha portato grossi cambiamenti. Se fino al 2019 l’art direction visiva delle nostre produzioni era interamente sviluppata da me, con nascita del nostro bimbo — nonché indiscusso CEO ad honorem — è stato fondamentale imparare a delegare task che prima gestivo in autonomia. Oggi, quindi, oltre che della gestione, mi occupo della direzione creativa dei due talenti che collaborano con noi da qualche anno: Nicolò Marchetti e Federico Gambarana, tra i visual designer più fini e sensibili che abbia mai conosciuto e che ormai ci seguono da capo a piedi nella produzione delle nostre esperienze (anche Matteo d’altronde ha felicemente trovato rinforzi, a partire dalla professionalità e raffinatezza della italianista e public historian Benedetta Pierfederici). Per tornare alla domanda, in casa Müesli sono una sorta di “capo cantiere” che in realtà non ha necessità di “controllare” nulla perché la fiducia che ripone nel proprio team è assoluta.

Pensi che il fatto di essere in Italia abbia influito o stia influendo in qualche modo sul tuo lavoro
Questa domanda si allaccia all’altro mio ruolo, quello sul fronte esterno. Sicuramente, abbiamo avuto più punti di contatto con ciò che c’è al fuori dall’Italia che con quello che c’è dentro, visti i numerosi riconoscimenti e premi arrivati negli anni proprio fuori dai nostri confini. I nostri progetti non solo sono apprezzati per la loro vena sperimentale, ma sono spesso anche oggetto di casi-studio. Negli anni abbiamo avuto numerose occasioni concrete per espatriare. Ci sono state opportunità a Pechino, a Berlino, a New York. Al di là dell’iniziale entusiasmo, per un motivo o per l’altro abbiamo sempre deciso di rimanere, non perché ci mancasse il coraggio ma perché forse, inconsapevolmente, sapevamo che qui c’erano e ci sono più occasioni per “fare”, soprattutto sul rapporto tra gioco e cultura. Proprio qui si incastra l’altro mio task, ovvero assicurarmi che We Are Müesli continui a sviluppare progetti secondo la visione e la missione del nostro manifesto: crediamo infatti che il videogioco sia il mezzo di comunicazione più popolare, empatico e d'avanguardia per fare cultura, e lo utilizziamo per progettare e realizzare esperienze di gioco inclusive per generare conoscenza, vicinanza e identificazione positiva.
Tornando al cuore della domanda, credo che il rapporto tra l’Italia e il nostro lavoro sia un flusso a doppio senso. Come cornice culturale, l’Italia ha da offrire sconfinate opportunità di sviluppo, solo che (spesso) non lo sa. È un paese talmente ricco di storie che dovrebbe esistere un videogioco per ogni archivio, museo e fondazione. Dall’altra parte, potrei peccare di immodestia, ma credo che il nostro lavoro abbia contribuito negli ultimi 8 anni a far guardare ai giochi con degli occhiali nuovi.
La nostra volontà è quindi quella di continuare ad affermarci come punto di riferimento per le istituzioni culturali in campo ludico come abbiamo fatto dal giorno zero di quel lontano 2013, lavorando oggi come allora su scala nazionale e internazionale per la valorizzazione del patrimonio, dell’arte e della memoria, costruendo di volta in volta proposte uniche cucite sulle esigenze dei nostri interlocutori. Nel tempo, questo ci ha permesso da una parte di sviluppare un network esterno trasparente e di valore fatto di professionisti altamente competenti, permettendoci di avviare collaborazioni intelligenti con altri studi di sviluppo che portano una filosofia simile alla nostra; dall’altra, di sviluppare una sorta di attività di advocacy. Parlo delle numerose docenze attive con i più importanti istituti milanesi, da SAE a Naba, delle guest lecture per varie realtà internazionali, dall’Institute of Digital Games di Malta al Maryland Institute College of Art di Baltimora, del dialogo con associazioni e istituzioni culturali attraverso seminari, workshop e conferenze, della partecipazione a festival indie come IndieCade (della cui curatorial board faccio parte) o a iniziative come la prima Arté Game Jam per la quale sono stata mentor. Fino ad arrivare ad attività autoprodotte di laboratori e conferenze, come l’evento Games Beyond Games che abbiamo organizzato a Torino nel 2019.

Alla base dei vostri progetti si riscontrano sempre scelte originali di design, narrativa e critica storica e sociale. Puoi dirci qualcosa di più su come nasce questa particolare fusione, tanto ricercata e desueta per dei prodotti videoludici?
We Are Müesli vuole fare da ponte tra il mondo del gamemaking e altre discipline dove il gioco, purtroppo, è ancora un campo inesplorato o frainteso. Lo facciamo con grande impegno e spirito di iniziativa, cercando di fare chiarezza su certe confusioni che si generano quando si parla di videogame, soprattutto applicato, soprattutto culturale. Uno dei nostri obiettivi è quello di avvicinare il mondo delle istituzioni culturali a quello dei giochi e dei videogiochi, dando loro anzitutto gli strumenti per capire quali siano le loro esigenze reali, senza attirarle con parole sensazionalistiche e di moda, ma accompagnandole a capire quali possono essere le scelte di gioco più sensate per loro (per esempio come partner in bandi di finanziamento, occasioni sempre interessanti ma che richiedono molta attenzione e fiducia). Cerchiamo insomma di mantenere alta l’attenzione su quanto più ci sta a cuore: costruire un concetto di cultura del gioco come forma espressiva e del made in Italy del videogioco riconoscibile in Italia ma soprattutto all’estero. Attraverso la ricerca dei temi e le scelte di design, vogliamo essere il più autorevoli possibili per non scoraggiare gli ambiti culturali a intraprendere percorsi per loro non convenzionali

I progetti del tuo studio talvolta esulano dal mondo dei videogiochi e spaziano anche in altri ambiti, come letteratura ed escape room. Eppure, l’interazione con l’utente rimane una costante in ogni vostro progetto. Come riuscite a tradurre le regole di gioco tipiche delle produzioni videoludiche in ambiti tanto diversi?
La produzione di giochi si porta dietro molti stereotipi, tra cui quello che fare un gioco sia “un gioco”. Se sei uno sviluppatore indie, realizzare un videogame è di per sé un’impresa titanica. Svilupparne uno per il sostegno della cultura è una vera scommessa. Progettare un’esperienza di valore significa spesso superare certi luoghi comuni autoreferenziali propri dei videogiochi, parole come “rewards”, “challenge” o addirittura “fun”. Quando ti occupi di trasferire concetti umanitari come in Once Upon a Tile, prototipo sviluppato anni fa con OpenLab e Daniele Giardini per un progetto Unesco, o atmosfere di distopia come in WER IST WER, l’escape room dedicata alla caduta del Muro di Berlino che abbiamo tenuto in forma live al Polo del ‘900 di Torino (nel 2019 prima della pandemia) e via Zoom dal Teatro Triennale di Milano (nel 2020 durante la pandemia), o ricostruire complotti neofascisti come in Colpo di Stato, card game investigativo che racconta il tentato Golpe Borghese del 1970, pensare che la motivazione del giocatore sia fondata sul vincere, sul competere, sul raggiungere un determinato punteggio, è riduttivo rispetto alla tematica affrontata. Progettiamo immaginando un tempo dove non ci si stupirà più nel “giocare” ad un’esperienza ispirata a un fatto reale, alla vita di una scrittrice, a un’ucronia legata a una vicenda storica… Queste sono le magie che mi piace mettere in atto: accrescere consapevolezza.

Puoi anticiparci qualcosa sui futuri progetti di We Are Müesli?
Dopo il lancio a inizio anno su Amazon di Chi è Chi, il libro interattivo tratto dall’escape room WER IST WER e la ristampa di Colpo di Stato, inaugureremo questo autunno due giochi molto diversi tra loro sia per genere che per formato. Per il Comune di Verbania abbiamo progettato una escape room ispirata all’opera di Gianni Rodari, mentre per un'importante rete di biblioteche rilasceremo un gioco “diverso”, fruibile a episodi tramite pdf, ispirato alla letteratura. In estate ricominceranno inoltre i nostri workshop di interactive storytelling (“Il mattino ha l’oro in bocca”), un modo semplice ma efficace per avvicinare chi scrive, sceneggia o ne ha anche solo curiosità all’ambito del gioco narrativo. Le cose che bollono in pentola in realtà sono molte, e speriamo che anche per tramite dell’imminente First Playable Fund potremo sviluppare il prototipo di un videogame al quale lavoriamo da molto tempo. Incrociamo le dita!