Giornalista, critico e scrittore, Marco Accordi Rickards è fondatore e Direttore Generale di Fondazione VIGAMUS, ente che gestisce VIGAMUS – The Game Museum of Rome e Vigamus Academy. In ambito universitario, è docente presso la Link Campus University di Roma e l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata". Ricopre il ruolo di Direttore Editoriale di GamesVillage e di Direttore Generale di Idra Editing.
Nel corso degli anni ha curato diverse pubblicazioni dedicate ai videogiochi tra cui:
- Accordi Rickards M, Vannucchi Francesca, Il Videogioco. Mercato, giochi e giocatori, Mondadori Università, 2013
- Accordi Rickards M, Storia del Videogioco. Dagli anni Cinquanta ad oggi, Carocci, 2014
- Accordi Rickards M, Manuale di Critica Videoludica, Unicopli, 2018
- Accordi Rickards M, Che cos’è un videogioco, Carocci, 2021
Nei tuoi libri affermi che si possono commettere due errori nel cercare di definire i videogiochi: identificarli con la forma fisica che li contiene (laddove esista) o ridurli alle stringhe di codice che li compongono. Puoi spiegarci qual è, invece, la vera natura del videogioco?
Tanto per cominciare, è fondamentale prendere atto che il termine “videogioco” ha travalicato da tempo il suo significato semantico. Come con il termine film non si intende una semplice “pellicola”, quanto l’opera cinematografica impressa su di essa (di norma, oggi la pellicola neanche c’è, eppure continuiamo a usare la parola film), così il videogioco non è solo un gioco elettronico su uno schermo, ma un’opera interattiva, un mezzo di espressione dal valore culturale e artistico per veicolare il pensiero umano, proprio come la letteratura, il teatro, il cinema o il fumetto. A questo proposito, trovo sia molto importante chiarire che il valore artistico-culturale di un’opera interattiva (c.d. videogioco) non va cercato solo nel suo aspetto narrativo, che peraltro potrebbe essere assente o solo strumentale al gameplay, ma anche nelle sue meccaniche di interazione, frutto del lavoro dei game designer. Se così non fosse, avremmo dei videogiochi “alti”, ai quali riconoscere piena legittimazione culturale, e dei videogiochi “bassi”, come quelli sportivi, di corse o di pura azione (peggio se violenta, come nel caso dei famigerati “first person shooter”, giochi di combattimento con visuale in soggettiva), degni al massimo di essere considerati come puri oggetti di evasione e svago. Inutile dire che la ricaduta è estremamente concreta e pratica: rischieremmo, ad esempio, di avere opere interattive finanziabili dalle istituzioni e altre no, il che a me sembra paradossale, poiché il videogioco, in quanto unico medium interattivo, esprime il suo valore culturale e artistico in modalità proprie ed esclusive, che devono essere capite e accettate, non ridotte agli schemi di altri e diversi media.
Il discorso rischierebbe di essere molto lungo e complesso (ne ho parlato a fondo nel mio ultimo libro, “Che cos’è un videogioco”), quindi mi limiterò ad aggiungere una breve considerazione. Il termine videogioco è usato per talmente tante categorie diverse tra loro, che è quasi inevitabile fare confusione. Se consideriamo ogni genere di esperienza interattiva per la quale si usa indiscriminatamente la parola game (videogioco), mi vengono in mente quattro tipologie totalmente differenti tra loro: le opere interattive delle quali abbiamo parlato, e che tradizionalmente rappresentano il Videogioco quale espressione di arte e cultura; l’Esport, dove il videogame diventa una manifestazione sportiva; il videogioco che è soltanto un prodotto commerciale costruito su meccanismi di monetizzazione, da monitorare in quanto può trovarsi al confine (o persino oltre) del gambling; infine, gli applied game, o serious game, che sono simulatori, strumenti interattivi utilizzati per specifiche finalità pratiche o sociali.
Come possiamo vedere, nel corso dei decenni abbiamo assistito a un processo di frammentazione e differenziazione di ciò che indistintamente nacque come videogioco, e che ora si è specificato in tanti oggetti distinti tra loro: è il processo che ho chiamato “Sindrome di Asteroids”, dal vecchio successo da sala di Atari dove, per l’appunto, colpivamo grandi meteoriti che si spezzavano in parti più piccole.
Il videogioco è un medium unico nel suo genere, che ha saputo nel corso dei decenni trasformarsi più volte, coniugando sempre alla perfezione innovazione tecnologica, interattività e creatività. Se dovessi identificare i momenti cruciali della sua storia, quali indicheresti?
Il videogioco si trasforma con una velocità impressionante. Nei suoi miseri 62 anni di storia, è cambiato più di quanto sia cambiato il libro o il film in lassi di tempo esageratamente maggiori. Immaginate di allestire una mostra che, in tre installazioni, mette a confronto i tre media, offrendo al pubblico, per ciascuno di essi, un esempio delle origini e uno contemporaneo. Nel primo ambiente, troviamo, da un lato, una teca con una Bibbia di Gutenberg; dall’altro, un Kindle, popolare lettore di libri elettronici, con l’ultimo romanzo di James Ellroy in versione e-book. Nel secondo ambiente, abbiamo due spazi: nel primo, il Cinématographe dei fratelli Lumière proietta, su un telo bianco, L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat; il secondo è una modernissima sala cinematografica all’interno della quale, dotati di appositi occhiali, assistiamo su maxischermo IMAX 3D, con il miglior impianto audio, all’ultimo blockbuster di supereroi. Nel terzo ambiente, infine, troviamo da una parte il cabinato da sala giochi Pong di Atari; dall’altra, una postazione con un computer di ultima generazione per sperimentare Half-Life: Alyx attraverso un visore per realtà virtuale Index di Valve. Ebbene, l’esperimento renderebbe palese a chiunque come 60 anni siano bastati al videogioco per cambiare e trasformarsi più di quanto non abbiano fatto il libro o il film, sotto tutti i punti di vista.
Ecco perché la storia del videogioco è così complessa da raccontare! Dovendo selezionare pochi momenti significativi, credo sia necessario distinguere innanzitutto tra la storia dell’industria dei videogiochi (e quindi delle piattaforme usate per videogiocare) e quella del videogioco vero e proprio, due narrazioni parallele e sempre indissolubilmente intersecate tra loro. A livello di industria e di hardware, credo che tra le tappe più significative vadano menzionate la pionieristica corsa della leggendaria Atari di Nolan Bushnell, che ha fatto esplodere il settore gaming prima nei locali pubblici e poi nelle case dei privati, sempre con il geniale tennis da tavolo elettronico Pong, e poi con la prima vera console di successo a cartucce intercambiabili; la rivoluzione degli home computer, anche e soprattutto in ambito gaming, operata da Commodore (tre le macchine che fecero la storia: VIC 20, Commodore 64, poi Amiga 500); il ciclone PlayStation, che socialmente fece diventare vincenti i videogiocatori e “cool” il videogioco; la doppia rivoluzione Nintendo con il DS e il Wii, in grado di raggiungere terre inesplorate, portando il videogioco tra soggetti che prima non lo avrebbero degnato di uno sguardo; infine, l’affermazione della scena indipendente nell’ultimo decennio e la visionaria corsa di Palmer Luckey, un ragazzo americano poco più che ventenne che, con il suo Oculus Rift, è riuscito a concretizzare il miraggio da fantascienza della realtà virtuale.
Quanto alla storia del medium, è impossibile non cadere nel personalismo, perché troppi sono stati i titoli fondamentali per l’evoluzione del videogioco, pertanto citerò direttamente tre titoli che mi stanno particolarmente a cuore: Space Invaders (Taito, 1978), che abbiamo anche in originale al VIGAMUS, il Museo del Videogioco di Roma, primo videogame a presentare veri e propri personaggi con un volto riconoscibile, i mitici alieni dalle fattezze ittiche; Zork (Infocom, 1980), titolo seminale per tutti i videogiochi narrativi, splendido esempio di letteratura interattiva priva di qualsiasi tipo di grafica; Red Dead Redemption 2 (Rockstar Games, 2018), straordinario manifesto di ciò che un’opera interattiva può essere oggi, con la sua profondità, la sua coralità e il suo incedere lento, maestoso, inarrestabile.
Tra le industrie culturali e creative, il settore dei videogiochi ha ampiamente dimostrato di saper contribuire alla crescita economica e sociale del Paese. Eppure, nonostante abbia alle spalle ormai più di mezzo secolo di storia, capita spesso di vederlo messo alla sbarra, in particolare da parte dei mass media. Come mai, secondo te, comprendere e descrivere i videogiochi in maniera appropriata è più complesso rispetto ad altri media?
È un problema di scarsa conoscenza del medium. Quando qualcosa non si conosce, si tende a guardarla con diffidenza, con sospetto. Con paura. Nel caso del videogioco, a mio parere si vanno a sommare due fattori che, insieme, rischiano di creare effetti assai deleteri. Da una parte, il termine stesso di “gioco” richiama istintivamente la dimensione dell’infanzia e dei minori, pertanto chi non conosce la reale natura dei videogiochi si allarma molto facilmente quando si trova davanti titoli indirizzati a un pubblico di adulti. Dall’altra parte, l’interattività che caratterizza il videogioco spaventa: non ci limitiamo a leggere di un soldato che spara, o a vederlo sparare, ma siamo noi stessi che, indossati i suoi panni, premiamo virtualmente il grilletto. Ecco, l’idea di commettere attivamente azioni violente o comunque socialmente riprovevoli è fonte di allarme e preoccupazione, specialmente se, come dicevamo prima, si immagina che a farlo possano essere dei bambini o comunque dei minorenni.
La situazione è questa da tempi lontanissimi, se pensate che il primo caso di polemiche legate a contenuti violenti e diseducativi nei videogiochi risale addirittura al 1976, quando la statunitense Exidy produsse un coin-op (videogioco da sala, a gettoni) nel quale il giocatore, guidando un’automobile, doveva distruggere dei gremlin investendoli. Ebbene, complice la grafica rudimentale dell’epoca, la stampa vide in quelli che avrebbero dovuto essere mostri dei semplici pedoni, col risultato di tuonare contro il videogioco dove lo scopo era mettere sotto le persone con la propria macchina. Da quel momento, polemiche analoghe sono riemerse ciclicamente, danneggiando l’immagine di un medium che, invece, è sempre più protagonista in positivo della nostra società.
Come superare questo problema? A mio avviso, la risposta deve essere culturale. Quando la gran parte della popolazione avrà chiara l’identità del videogioco, fisiologicamente smetterà di allarmarsi di fronte a falsi problemi. Come ripeto sempre ai miei studenti, che siano di Tor Vergata, della Vigamus Academy o di Link Campus University, non sono certo le scene di violenza esplicita, di nudo o di sesso la ragione che fa delle opere interattive un medium adulto; esse sono solo uno degli infiniti contenuti possibili all’interno di un mezzo espressivo con la potenzialità e le caratteristiche per parlare a tutti e di qualsiasi argomento, per veicolare ogni genere di emozione, idea, tema o pura sensazione. E, come ogni medium culturalmente adulto, il videogioco si declina in molti modi diversi, adatti, di volta in volta, a fasce di utenza differenti, senza per questo delegittimare se stesso. Semmai, torna con forza il tema della parola “videogioco”, che noi tutti giustamente amiamo ma che, a tratti, può essere fuorviante: al gioco, infatti, non si consente ciò che un mezzo espressivo può fare. Quando tutti avremo chiaro in mente che un videogioco non è solo “un gioco davanti a uno schermo”, ma un’opera interattiva dal valore analogo a un’opera cinematografica, teatrale o letteraria, allora potremo smettere di preoccuparci di spiegarlo.
In tempo di pandemia, famiglie, educatori e aziende hanno avuto l’occasione di (ri)scoprire i videogiochi e apprezzarne le potenzialità, soprattutto dal punto di vista sociale e educativo. Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche che rendono i videogiochi degli strumenti unici di coinvolgimento e condivisione?
In tempi così difficili e drammatici come quelli che stiamo vivendo, è bello e confortante constatare quanto il videogioco, il nostro amato videogioco, si sia reso protagonista in positivo all’interno della società. Non solo ha dimostrato di rappresentare un settore economico solido e addirittura in forte crescita, capace di offrire aspettative occupazionali a tante ragazze e tanti ragazzi in cerca di lavoro (pensiamo a quante aree dell’economia, oggi, sono invece in ginocchio, allo stremo delle forze), ma è risultato una piattaforma meravigliosa per mantenere viva e in totale sicurezza una socialità tanto più vitale quanto messa a rischio dalle numerose restrizioni che oggi caratterizzano le nostre vite in tempo di pandemia.
Il videogioco, poi, grazie alla sua natura interattiva, trasmette un messaggio straordinario: per risolvere un problema, superare un ostacolo, occorre agire, non restare fermi a guardare. E, per farlo, occorre pensare, collaborare, fare gioco di squadra. Tutti valori dei quali, oggi come ieri, non possiamo fare a meno, e che i nostri ragazzi possono acquisire divertendosi proprio grazie ai videogame.
Credo che la campagna “Play Apart Together” lanciata dall’industria dei videogiochi con il sostegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sia un bellissimo esempio del valore sociale ed educativo che i videogiochi possono avere oggi: invece di discutere di potenziali pericoli, è stato bello leggere di come il videogioco faccia bene a giovani e meno giovani e di come esso, in generale, possa essere uno strumento per rendere il mondo un posto migliore. Lo dico da circa venti anni: occorre essere dei conscious gamer, dei giocatori consapevoli della natura, del valore e delle caratteristiche del videogioco. Giocare consapevolmente vuol dire rispettare il PEGI, non esagerare nei tempi di fruizione e arricchirsi culturalmente ed emotivamente grazie ai contenuti e ai valori che troviamo nelle opere interattive adatte a noi. E quando è così, non si può che dire, con gioia ed orgoglio